Intervento al convegno “50 anni di Stonewall. 20 anni di TDOR”, Roma 2019

Depath nasce da un gruppo di attivistU trans/non binariU/genderqueer e altri asterischi che vengono da percorsi politici vari ed eterogenei ma che si riconoscono nel trans femminismo come movimento femminista intersezionale che mette al centro la critica alla cis-normatività e al binarismo di genere, ma anche al capitalismo, al razzismo, all’abilismo, etc. 

Lo scorso aprile in corrispondenza con la conferenza biennale dell’EPATH, la European Association for Transgender Health che si teneva a Roma, abbiamo organizzato una due giorni per parlare di salute trans di, per e tra persone trans/non/binariU ecc. Mentre un’associazione internazionale composta maggioritariamente da professionisti cisgenere si riuniva per discutere di salute trans in uno spazio economicamente, socialmente, simbolicamente inaccessibile alla maggioranza delle persone trans e non binarie in Italia (insomma per parlare di noi senza di noi).

Abbiamo voluto costruire uno spazio dove potersi riunire per tornare a politicizzare la salute trans e non binaria e pensarla al di fuori del paradigma patologizzante dentro il quale è generalmente confinata. 

Depath è un gioco di parole con Epath ma è anche un modo di mettere al centro la questione della depatologizzazione delle esperienze trans e non binarie, che per noi è una condizione essenziale del benessere e della salute trans. La patologizzazione trans, ossia la costruzione delle identità e delle esperienze trans come anormali, negative per gli individui e per la società, è un elemento che permea la società nella quale viviamo, incluse le istituzioni mediche, educative, sociali, a dispetto dei proclami della comunità medica internazionale (ultimo dei quali il cambiamento dell’ICD dell’OMS). 

Una delle espressioni più dirette e tangibili della cisnormatività che permea la società, la patologizzazione, non è solo un problema di “mancato riconoscimento” delle nostre identità e delle nostre esperienze del corpo e del genere, che sono viste come “sintomi” di un problema/malattia… anche se il “mancato riconoscimento” che la patologizzazione genera ha ricadute molto materiali perché nutre la transfobia e la transmisoginia che producono violenza e esclusione sociale.

La patologizzazione ha anche degli effetti materiali molto più diretti sulla vita delle persone trans e non binarie. La patologizzazione condiziona l’accesso ai diritti sociali – pensiamo al fatto che una diagnosi di disforia è ancora necessaria in Italia per cambiare i documenti (per coloro che desiderano farlo) in un mondo in cui M o F è ancora una informazione centrale sui documenti di identità e in cui avere dei documenti conformi (e in generale avere dei documenti riconosciuti nel paese, privilegio che non tutte le persone trans hanno) condiziona l’accesso a servizi, lavoro, reddito, mobilità… la patologizzazione condiziona la possibilità di accedere ai percorsi medicalizzati di affermazione di genere richiesto da alcune soggettività trans: ancora oggi, infatti, c’è bisogno che un professionista psi (poco importa psicoterapeuta o psichiatra) formuli una diagnosi di disforia di genere (a volte dopo mesi di psicoterapia) al fine di poter accedere agli ormoni, per non parlare della chirurgia. 

QualcunU dice che questo serva a tutelare le persone trans, a garantirne la salute e a fare in modo che le persone facciano scelte ragionate rispetto al proprio corpo e alla propria vita (aka: non si pentano !)… noi pensiamo che la patologizzazione faccia male alla salute mentale e fisica delle persone trans:

1) perché la patologizzazione è una forma di stigma e lo stigma, lo sappiamo, fa male alla salute

2) perché per le persone che sentono il bisogno di un accompagnamento psi durante una cosiddetta “transizione medicalizzata” il ruolo di gatekeeper che l’attuale sistema assegna ai professionisti della salute mentale impedisce l’instaurazione di un vero rapporto terapeutico (come si può avere una relazione terapeutica con qualcuno che ha il potere di decidere per noi?). Di fatto il gatekeeping mette a rischio la salute mentale delle persone piuttosto che favorirla.  Inoltre la patologizzazione delle esperienze trans ostacola l’accesso a un supporto in salute mentale affermativo nei confronti delle identità di genere delle persone e libero dalla tentazione di leggere ogni problema di una persona trans come frutto di quella che l’apparato medico in Italia intende ancora come una “condizione”.

Infine crediamo che il gatekeeping che caratterizza l’attuale modello medico di accompagnamento ai percorsi di affermazione di genere non possa in nessun modo aiutare le persone a fare le proprie scelte rispetto al ricorso a trattamenti di affermazione di genere in modo oculato perché è costruito in modo tale da spingere le persone a dimostrare di odiare il proprio corpo e volerlo cambiare il più possibile per poter rientrare nei criteri diagnostici dai quali dipende l’accesso a tutti i trattamenti di affermazione di genere e la possibilità di vedere la propria identità riconosciuta amministrativamente (cambio dei documenti, spesso carriere alias etc).

Di depatologizzazione si è molto discusso negli ultimi decenni, e moltU hanno legittimamente espresso il sentimento che la patologizzazione sebbene problematica, sia il prezzo da pagare per avere accesso a trattamenti di affermazione di genere rimborsati dal sistema sanitario nazionale. Noi crediamo che questa paura non abbia più luogo di essere. In primo luogo la patologizzazione non ha di fatto garantito l’accesso gratuito ai trattamenti. 

Guardiamoci intorno: per prendere solo il caso dell’Italia, nonostante decenni di patologizzazione i trattamenti ormonali non sono ancora rimborsati se non in un numero ristretto di regioni o strutture e grazie a una serie di manovre che gli endocrinologi di buona volontà possono scegliere (individualmente e senza nessun obbligo) di fare per accomodare lU propriU utentU… anche in questo caso però tutta l’architettura costruita finora è totalmente precaria, basti pensare al recente caso di esclusione dei farmaci a base di estrogeni dalla fascia A: una scelta che è stata compiuta senza nemmeno prendere in considerazione l’esistenza delle persone trans e l’uso che ne facciamo! 

Per quanto riguarda le chirurgie, possiamo dire che sulla carta sono gratuite (come qualsiasi operazione svolta nel contesto degli ospedali pubblici), ma possiamo chiederci se nei fatti lo siano veramente… di fatto per potervi accedere, a causa della patologizzazione trans che informa la legge 164, è necessario ottenere la sentenza di un giudice e questo vuol dire soldi per avvocati e perizie (e il gratuito patrocinio non esenta dalle spese per le perizie). Inoltre anche una volta avuta la perizia, le liste di attesa sono spesso mastodontiche e spingono le persone che possono permetterselo, che hanno già atteso molto tempo , a rivolgersi al privato, favorendo di fatto un’ingiustizia sociale inaccettabile e una medicina di classe a due velocità… peraltro ci potremmo chiedere perché interventi che non hanno nulla di particolarmente specialistico come l’isterectomia o anche la torsoplastica o mastectomia debbano essere praticate solo da un manipolo di chirurghi “specialisti “… non sarà anche questo un frutto della patologizzazione che produce uno stato di eccezione per le persone trans? 

La patologizzazione e il sistema di gatekeeping che ne dipende ha prodotto un sistema nel quale molte persone che non corrispondono ai criteri diagnostici o che non ci si riconoscono sono di fatto escluse dall’accesso all’ormonoterapia nei circuiti del SSN… Quindi no, la patologizzazione non difende veramente il diritto delle persone trans e non binarie ad accedere a trattamenti rimborsati dal SSN, ma anzi produce di fatto spesso esclusione sulla base di criteri di classe, razzializzazione, espressione di genere. Rinunciarvi renderebbe davvero le cose peggiori? Dando un’occhiata a quello che succede in molte parti del mondo, diremmo di no. 

Ormai in molti paesi, per vie differenti (o attraverso l’approvazione di nuove leggi come in Argentina, Uruguay e nello Stato spagnolo, oppure grazie alla mobilitazione di attivistU trans a livello locale come in Francia) è già possibile l’accesso ai trattamenti di affermazione di genere sulla base di quello che possiamo definire il modello del consenso informato, ossia un modello di accesso ai trattamenti di affermazione di genere e a tutti i servizi sanitari di cui potremmo avere eventualmente bisogno, non basato su un processo di valutazione diagnostica.. E questo non ha affatto comportato la perdita della copertura sanitaria garantita dai rispettivi SSN. 

E’ anche per iniziare a confrontarci su questo che abbiamo organizzato il Depath: volevamo smettere di dibattere in termini astratti sulla depatologizzazione, sui suoi ipotetici pro e contro, e iniziare invece a ragionare su come metterla in pratica qui e ora.

Iniziare a pensare strategie, prendere ispirazione dalle esperienze degli altri paesi (erano presenti moltU attivistU internazionalU) e capire concretamente come si fa a renderla reale.

Pensiamo che il momento sia venuto di smettere di chiederci SE la depatologizzazione è possibile ma COME attuarla nella pratica. 

Per noi depatologizzazione significa non solo uscita da un paradigma patologizzante delle esperienze trans, ma anche giustizia sociale e diritto alla salute, garanzia della autodeterminazione e dell’autonomia corporea per tuttU, incluse le persone trans, che significa anche garanzia dei mezzi materiali per raggiungere questa autonomia e autodeterminazione, e quindi accesso ai trattamenti di affermazione di genere/modificazione corporea rimborsati dal SSN per chi li desidera e naturalmente accesso a servizi sanitari gratuitU, trans affermativi, rispettosi dell’autodeterminazione per tuttU. 

Proprio per questo la lotta per la depatologizzazione e per l’affermazione di quello che chiamiamo il modello del consenso informato è una lotta transfemminista. E’ una lotta per l’autodeterminazione dei corpi e dei generi e per l’eterogeneità degli stessi nonché per l’accesso ai servizi che la garantiscono (inclusi i servizi legati alla salute sessuale e riproduttiva). E’ una lotta contro le politiche neoliberiste perché basata sul rifiuto della privatizzazione del welfare – che per noi è da rinnovare completamente mettendo al centro l’autodeterminazione dei soggetti – che favorisce i profitti dei privati, è una lotta anti-capitalista perché vogliamo riprenderci il controllo sui mezzi di ri/produzione dei nostri corpi e dei nostri generi.