Depatologizzazione – Queerzionario

Pubblichiamo l’intervento di Fau a Radio Sonar per il Queerzionario (potete ascoltare la lettera “D” qui e leggerla qui sotto). Si parla di Depatologizzazione e Depsichiatrizzazione.

Ciao a tutt*, sono Fau, psicologo trans non binario, attivo nella lotta transfemminista e antipsichiatrica, faccio parte del DEpath, collettivo nato alcuni anni fa per contrastare la patologizzazione delle esperienze trans attraverso la costruzione di reti autorganizzate e pratiche dal basso, reti formate da persone trans, affinché sia la nostra voce a parlare di noi e non più il sistema ciseteropatriarcale.

Oggi per il queerzionario vi parleremo della lettera “D”, D come depatologizzazione o depsichiatrizzazione.

La depatologizzazione si riferisce a quell’insieme di pratiche volte a sovvertire l’imposizione di un modello medico psichiatrico dominante con cui determinate soggettività ed esperienze vengono definite anormali, disfunzionali, disturbate, devianti, per l’appunto patologiche. Nel contesto socio-culturale in cui siamo inserit*, quello occidentale, la patologizzazione psichiatrica avviene principalmente tramite la creazione di categorie diagnostiche che vengono inserite all’interno di sistemi di classificazione come il DSM, ovvero il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali. Si tratta di una vera e propria bibbia per gli esperti della salute mentale, che stabilisce quali comportamenti, vissuti e identità possono essere soggette a controllo sociale.

In funzione delle revisioni che vengono fatte del DSM negli anni, una serie di condizioni e identità all’improvviso possono uscire o entrare dal sistema nosografico. Questo vuol dire che un giorno ci si può svegliare ed essere o, al contrario, non essere più considerati malati mentali. Ad esempio, l’omosessualità era inserita nel DSM già a partire dalla sua prima versione, uscita nel 1952, sotto la voce delle parafilie o perversioni sessuali. Diventerà poi “disturbo dell’orientamento sessuale” nella seconda versione del DSM e “omosessualità egodistonica” nel DSM III. Solo nel 1987 verrà definitivamente rimossa l’omosessualità dalle classificazioni del DSM, grazie alle battaglie portate avanti dal movimento LGBTQ+.

In maniera analoga, l’identità e l’esperienza trans vengono inserite nel DSM a partire dal 1980, con il nome di “disturbo dell’identità di genere” e sono tutt’ora parte del sistema nosografico anche se nell’ultima versione del manuale si parla di “disforia di genere”. Come si può notare, l’evoluzione di tale categoria diagnostica è simile a quella dell’omosessualità. Nel tentativo di rispondere alle forti critiche mosse dalla comunità trans per l’effetto stigmatizzante e patologizzante della diagnosi, l’American Psychiatric Association ha tentato di addolcire la pillola dicendo che non è un disturbo di per sé l’identità trans, bensì i sentimenti negativi associati alla percezione di un genere altro rispetto a quello assegnato alla nascita, definiti appunto “disforia di genere”.

Le problematicità e le conseguenze della concezione dell’identità trans come disturbo sono diverse. Innanzitutto, il modello medico-psichiatrico non considera che la disforia possa derivare dallo stigma e dal mancato riconoscimento delle persone trans causato dalla cultura cissessista in cui siamo inserit*. Relega quindi la questione al livello individuale e deresponsabilizza società e istituzioni. Inoltre, lega indistricabilmente la soggettività trans a una prospettiva medica, con il risultato di dare pieno potere a degli specialisti che non condividono il vissuto delle persone che intendono “trattare”, di decidere delle loro vite, minando seriamente la libertà di autodeterminazione.

Tale meccanismo di potere viene anche definito “gatekeeping”, in quanto lo specialista determina chi ha o non ha accesso a determinati percorsi medicalizzati e procedure legali di affermazione di genere. Rende cioè controllato e limitato l’accesso a servizi fondamentali per la salute psico-fisica che dovrebbero essere liberamente accessibili, gratuiti e garantiti. Il gatekeeper, che solitamente è uno psichiatra o uno psicologo, agisce attraverso una valutazione diagnostica che stabilisce quanto la persona che ha davanti, che viene quindi ritenuta incapace di decidere per sé, rientri nei criteri diagnostici della disforia di genere. In altre parole, stabilisce quanto una persona sia legittimata a definirsi trans. Per poter rientrare in tali criteri e quindi avere accesso ai trattamenti di affermazione di genere, le persone trans sono spinte a rientrare in una narrazione che spesso non rappresenta la propria esperienza di soggettivazione. Devono cioè dimostrare di essere fortemente disforic*, odiare il proprio corpo, essere nat* nel corpo sbagliato e volerlo cambiare il più possibile, in una direzione fortemente ancorata a un modello di genere binario e ciseteronormativo.

Inoltre, il modello del gatekeeping prevede un percorso psicologico obbligatorio che accompagni la persona durante il percorso medicalizzato. Proprio perché riconosciamo l’importanza che può avere un percorso di supporto psicologico nelle vite delle persone in generale, e in particolare quando si vivono esperienze di discriminazione, stigma, aggressione e microaggressione quotidiane, ci preme sottolineare che il valore terapeutico viene meno quando la psicoterapia è imposta. Lo psicologo o psicoterapeuta rischia di essere percepito come controllore più che alleato, perché è posto in una posizione di potere e autorità rispetto all’utenza.

Cosa possiamo fare quindi per contrastare il modello dominante del gatekeeping e sostituirlo con un linguaggio e una pratica depatologizzanti?

Noi come DEpath chiediamo il riconoscimento e l’applicazione della pratica del consenso informato. Il consenso informato si pone in contrapposizione al gatekeeping, innanzitutto perché fa riferimento a protocolli creati per e tra persone trans, e poi perché propone un modello di accesso alla salute di tipo relazionale e non più diagnostico. Questo significa che il ruolo del professionista diventa quello di fornire tutte le informazioni necessarie sui trattamenti possibili, i rischi e i benefici associati, in modo da rendere la persona consapevole e libera di scegliere che tipo di percorsi intraprendere. Il consenso informato prevede inoltre che la terapia psicologica sia opzionale e non più obbligatoria, riacquisendo così la funzione di supporto e accompagnamento che dovrebbe avere. È quindi un modello che si basa sull’autodeterminazione della persona. Se vi sembra utopia così non è, diversi paesi nel mondo, tra cui l’Argentina e l’Uruguay, lo adottano come modello principale di accesso ai servizi.

Riteniamo urgente la conoscenza e l’applicazione del modello del consenso informato, vogliamo cominciare a diffonderlo a partire dalle nostre reti sociali e di lotta, per creare alleanze forti capaci di ribaltare l’ordine sociale ciseteropatriarcale che ci vuole deboli, impotenti e patologizzat*.

Consenso informato, protocolli, depatologizzazione e lotte per la salute trans*

Ripubblichiamo questa intervista che abbiamo rilasciato a Christian Leonardo Cristalli per il sito Queermagazine in cui parliamo di consenso informato, protocolli, autodeterminazione e lotte per la salute trans…

https://www.queermagazine.it/2020/05/17/la-questione-dellautodeterminazione-delle-libere-soggettivita-transgender/

Nella Giornata internazionale al contrasto all’omobitransnegatività affrontiamo un tema che è rivendicazione centrale per la vita delle persone transgender in Italia: l’autodeterminazione. Lo facciamo intervistando Oli, Marcia e Clark, attivist* del DEpath.

Potete spiegarci quanto il protocollo Onig, seppur all’avanguardia nel 1998, sia responsabile del mantenimento ad oggi della patologizzazione delle persone transgender in Italia e nel contempo anche fortemente escludente per tutte le libere soggettività non binarie?

Quali sono i bisogni che non soddisfa della comunità trans e non binary?

Come mai questo ente detta tempi e linee guida al SSN come i 6 mesi di sedute di psicoterapia coatta e test diagnostici come Real Life Test per ciò che riguarda l’accesso ai nostri percorsi?

Proviamo ad andare per ordine. Per prima cosa non pensiamo che il protocollo ONIG nel 1998 fosse “all’avanguardia”. Sicuramente quella che potremmo definire la “medicina trans” si è sviluppata tardi in Italia. Per essere più precis*, i medici in Italia hanno investito tardi la questione dei servizi legati all’affermazione di genere. In un primo momento le persone T si sono autorganizzate, spesso creando e scambiando saperi dal basso (per esempio i saperi sui dosaggi ormonali) anche attraverso le reti internazionali che sono state preziose. E hanno lottato per creare servizi di salute per le persone trans – pensiamo all’esperienza pionieristica del consultorio MIT a Bologna – in un’epoca in cui ben pochi medici erano “interessati” a formarsi in questo campo e a venire incontro all’utenza T che chiedeva accesso ai trattamenti, soprattutto di poter farlo attraverso il servizio pubblico! In questo senso la creazione dell’ONIG è stata importante perché ha federato i pochi professionisti che lavoravano con un’utenza trans all’interno di un’organizzazione che contava anche una presenza trans che, è importante ricordarlo, quel posto lo ha strappato con le lotte e con le iniziative di auto-organizzazione che ha saputo creare.

Il protocollo creato dall’ONIG nel 1998 aveva, in effetti, un elemento “progressista”: il fatto che, anche grazie alle lotte trans, non prevedeva una valutazione psichiatrica obbligatoria per l’accesso ai trattamenti di affermazione di genere. Sotto altri aspetti però non era assolutamente all’avanguardia perché prevedeva e prevede ancora oggi un percorso di psicoterapia obbligatorio per poter accedere ai trattamenti di affermazione di genere. Questo veniva fissato all’interno del protocollo proprio nello stesso anno in cui per la prima volta gli Standard di cura (Standards of Care) della WPATH (allora Herry Benjamin Gender Dysphoria Association) nella loro V versione stabilivano che la psicoterapia non poteva essere considerata un requisito per accedere a questi trattamenti.

Oggi, nonostante i cambiamenti intervenuti nel corso degli anni, il protocollo ONIG continua di fatto a poggiare sulla valutazione diagnostica per l’accesso ai trattamenti di affermazione di genere, valutazione fatta nell’ambito della suddetta psicoterapia obbligatoria. In questo, però, è importante ricordarlo, non si discosta dalla maggioranza dei protocolli applicati nel mondo euroamericano, per lo più ispirati agli Standard di cura (SdC) della WPATH (linee guida ‘di massima’ adattabili ai singoli contesti) che continuano a basare l’accesso ai trattamenti di affermazione di genere su una valutazione diagnostica (diagnosi di disforia di genere). Certo gli SdC propongono anche raccomandazioni che potrebbero rendere più snello il percorso di accesso ai trattamenti rispetto alla situazione odierna in Italia: Per prima cosa non raccomandano una durata per il percorso di valutazione diagnostica (i famosi sei mesi “adattabili” dell’ONIG, anche se nella nuova versione provvisoria delle linee guida caricata recentemente sul sito non se ne fa più menzione). Secondariamente affermano che i professionisti sanitari possono prescrivere gli ormoni senza la lettera di un professionista psi, purché abbiano “una formazione adeguata in materia di salute comportamentale” e siano “competenti nella valutazione della disforia di genere” (SdC, p. 26) . Altra raccomandazione interessante dal punto di vista dello “snellimento” del percorso è quella che riguarda quale livello del sistema sanitario debba considerarsi il più adeguato per prescrivere gli ormoni: gli SdC dicono che si tratta dell’assistenza sanitaria di base/primaria (ovvero compito dei medici di base, in altri contesti parliamo anche di professionisti paramedici) e non di servizi specialistici (com’è il caso attualmente in italia).

Tuttavia anche gli SdC della WPATH – così come il protocollo ONIG – continuano a condizionare l’accesso ai trattamenti di affermazione di genere a una valutazione psicodiagnostica da parte di un sanitario/psi. Qui risiede il problema principale dei protocolli che possiamo definire basati sul “modello del gatekeeping” e da cui derivano procedure che sono state giustamente criticate come il real life test/experience, quel periodo di osservazione psi di 12 mesi a cui la persona che vuole accedere alle chirurgie (genitali in particolare) deve sottoporsi per dimostrare di “avere successo nel ruolo di genere desiderato” (SdC, p. 61). In questo modello spetta ad un professionista decidere i tempi, i modi e la possibilità stessa di accedere ai trattamenti, mentre l’utente è reputat* incapace di decidere : questo è completamente in contraddizione con l’obiettivo ufficiale del gatekeeping, ossia che le persone prendano scelte consapevoli e autonome sulle proprie vite e sul proprio corpo. Peraltro, nonostante l’obiettivo ufficiale di questo modello sia evitare che le persone si precipitino sui trattamenti di affermazione di genere senza aver maturato la propria decisione, paradossalmente il gatekeeping basato sulla valutazione diagnostica spinge le persone a voler dimostrare/dimostrarsi di odiare il proprio corpo e di volerlo cambiare il più possibile per poter rientrare nei criteri diagnostici dai quali dipende l’accesso a tutti i trattamenti di affermazione di genere, inclusi peraltro quelli i cui effetti sono almeno in parte reversibili.

Il modello del gatekeeping, che è il modello tradizionale di accesso ai trattamenti di affermazione di genere, tende a concepire questi ultimi come un “pacchetto” (ormoni+chirurgia), cosa che rende difficile il rispetto della pluralità e della singolarità dei percorsi riguardo ai desideri di trasformazione del proprio corpo. Inoltre il fatto che i professionisti psi siano messi in una posizione di potere e autorità in quanto gatekeeper dei trattamenti, di fatto invalida la possibilità di creare una relazione terapeutica libera e positiva con l’utenza, privandola anche del diritto ad avere un supporto psicologico in un momento in cui alcun* possono sentirne il bisogno. A questo proposito è particolarmente significativo uno studio sul vissuto delle persone che accedono alle gender identity clinics in Scozia, dove vige un modello simile a quello proposto dal protocollo ONIG come dagli altri protocolli basati sul gatekeeping. Lo studio ha mostrato che il 62% de* partecipanti si è sentit* angosciat* (distressed) e preoccupat* per la propria salute mentale durante il periodo di frequentazione della clinica, ma che nella metà dei casi non ha osato parlarne per paura di diminuire le proprie possibilità di accesso ai trattamenti.

Diciamo tutto questo per sottolineare che il modello basato sul gatekeeping di fatto è problematico e potremmo dire fallimentare anche dal punto di vista della logica che lo sostiene. Ma dal nostro punto di vista, il problema principale di questo modello è che produce una barriera all’accesso a trattamenti di affermazione di genere di qualità e almeno parzialmente rimborsati dal Sistema sanitario nazionale (ricordiamoci però che in Italia, nonostante la patologizzazione della condizione trans, i trattamenti ormonali sono rimborsati solo a una minoranza di persone). Le persone che non corrispondono ai criteri diagnostici o anche semplicemente alle idee personali sul chi sia una persona trans del* terapeuta che deve fare la diagnosi, rischiano di trovarsi impossibilitate o fortemente ostacolate nell’accedere ai trattamenti desiderati. In questo senso, nonostante i criteri diagnostici stiano certamente evolvendo e si stiano facendo più flessibili, sono comunque il frutto di un approccio biomedico, cisnormativo, euro-americanocentrico e classista alla transitudine. Ovviamente in questo quadro chi non corrisponde alla norma (cis)genere e (etero)sessuale ha più difficoltà ad accedere ai trattamenti di affermazione di genere. Ma non è finita qui. Per definizione, la valutazione diagnostica tende a “favorire” nell’accesso ai trattamenti le persone più inserite socialmente. Chi sta ai margini corrisponde meno o non corrisponde per niente al modello di “successo nel ruolo di genere desiderato” perché questo presuppone l’inserzione sociale se non addirittura la stabilità professionale. Che ne è in questo quadro delle persone che vivono all’intersezione di diverse forme di marginalizzazione quali il razzismo, la puttanofobia, la precarietà? In Francia, dove questi dati sono disponibili, la ricerca ha mostrato che le persone T più precarie, che praticano il sex work e migranti hanno molte più difficoltà ad accedere ai trattamenti attraverso le équipe autoproclamate “ufficiali” che lavorano negli ospedali pubblici. Inoltre, soprattutt per com’è applicato in Italia, il processo diagnostico tende a escludere o “rimandare” le persone la cui salute mentale è più precaria.

Per tutte queste ragioni il gatekeeping è una forma di barriera nell’accesso ai trattamenti di affermazione di genere che colpisce più duramente proprio le persone T più marginalizzate. Infine il protocollo basato sul gatekeeping contribuisce a nutrire i presupposti e le giustificazioni alla patologizzazione delle persone trans che noi intendiamo non tanto o non solo come forma di “non riconoscimento” delle esperienze trans del genere e del corpo che sono lette come “sintomi” e sono inferiorizzate rispetto alle esperienze cis, ma anche come forma di barriera all’affermazione di genere delle persone T. È la patologizzazione delle esperienze T che sostiene tutto l’apparato medico-giuridico che in italia rende il cosiddetto “percorso” un calvario e per di più un calvario molto costoso in termini economici (tra ticket per un numero infinito di visite per far si che i terapeuti siano ben sicuri che si è trans, relazioni a prezzi esorbitanti, avvocati, etc.). Un prezzo che non tutt* possono permettersi. L’alternativa a questo modello esiste, non soltanto l’attivismo trans ha prodotto linee guida e raccomandazioni alternative (pensiamo per fare solo l’esempio più recente, al testo prodotto da Transgender Europe nel 2019), ma modelli alternativi sono già applicati in altri paesi come vedremo più avanti, e non solo in contesto euro-americano, al contrario.

Il concetto di “Disturbo dell’Identità di Genere- DIG” in relazione all’identità di genere della persona è ormai stato superato con l’uscita dal DSM-IV e sostituito con il sempre meno stigmatizzante “Disforia di Genere” del DSM-V. Inoltre, l’ultima versione dell’ICD 11 prende ancor più distanza da questa patologizzazione facendo riferimento alla categoria di “Incongruenza di Genere”.

Come mai allora in Italia i piani terapeutici di migliaia di persone trans contengono oggi la dicitura “DIG” (Disturbo dell’identità di Genere) e siamo rimaste ferme alla versione del DSM-V nella sanità pubblica?

I codici dell’International Classification of Diseases (ICD) dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nella loro 11esima versione sono utilizzati a livello globale per una varietà di scopi, tra cui il riconoscimento legale del genere, l’accesso a cure sanitarie specifiche e alla copertura sanitaria. Per gli stessi scopi alcuni paesi utilizzano altri sistemi di classificazione come, ad esempio, il DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali). L’ICD-11 infatti non ha forza legale immediata sul DSM-5, lasciandolo quindi inalterato.

L’influenza del DSM segue la stessa logica di potere colonizzante e di egemonia culturale che gli Stati Uniti hanno nel mondo. Infatti, pur essendo un testo provinciale (nel senso che emana da una realtà singolare e specifica che è quella degli Stati Uniti), quasi il 70% delle organizzazioni hanno dichiarato che si tratta di un documento che ha potere giuridico e scientifico nei loro Paesi. Rispetto alle questioni di salute trans, ciò significa che il DSM è il documento privilegiato per definire i parametri di chi può avere accesso a chirurgie di affermazione del genere e / o ai trattamenti ormonali e / o richiedere la modifica del nome legale e della menzione di genere sui documenti identificativi, anche al di fuori dei soli Stati Uniti.

Per quanto riguarda il concetto di disforia di genere, quali sarebbero i “dati oggettivi”, i campioni quantificabili, ripetibili per determinare che le persone che chiedono di vivere in un genere diverso da quello attribuito/assegnato loro alla nascita soffrono di qualcosa chiamato “disforia di genere”? Non esiste alcun esame diagnostico per rilevare la disforia di genere, tutto accade nell’ambito dell’economia del discorso, è la persona stessa tramite il racconto di un sentimento soggettivo a produrre il materiale con cui verrà stilata la diagnosi di “disforia di genere”. Questa diagnosi verrà poi “confermata” con l’aggiunta di una somministrazione di una batteria di test psicologici che hanno come parametro di giudizio gli stereotipi di genere etero patriarcali. Ciò significa che l’accesso alle tecnologie biomediche esistenti dipende strettamente dall’approvazione della medicina stessa e dal suo potere di enunciare ciò che sarebbe accettabile secondo le regole binarie di genere oppure no. Questo potere viene definito “gatekeeping”. A partire da questa considerazione la domanda che dovremmo porci è: quali soggetti umani la medicina consente/permette di produrre? Sotto il mantello della natura, la medicina ha sistematicamente prodotto la norma e l’anomalia, condizionando l’intelligibilità di quest’ultima. Inoltre, ha stabilito secondo quali criteri si dovrebbe accettare di convertire i cosiddetti “anormali” o “divergenti” in “normali”. Rispetto al genere questi criteri di riferimento sono binari ed eterocisnormativi. Questo è il modo in cui regola, ed influenzano quindi anche la regolamentazione della costruzione dei corpi trans. E sebbene siano il risultato di biotecnologie e procedure chirurgiche, dipendono anche da un regolamento morale su quali corpi sarebbero o meno considerati accettabili.

Esistono tanti modi di soggettivarsi come persone trans, non binarie, e di genere non conforme e nessuna diagnosi può e deve validare o meno questi vissuti. La diagnosi di disforia di genere, di una sofferenza psicologica che produrrebbe uno sconforto sul piano esistenziale nasconde in realtà lo stigma transfobico e cissessista delle strutture di potere, tra cui la medicina, nei confronti delle soggettività trans. La “sofferenza”, se c’è, non si autoproduce internamente ma è il risultato di varie forme di discriminazione perpetrate ogni giorno socialmente, istituzionalmente, economicamente e politicamente sulle soggettività fuori norma.

Qualificare la transgenerità come una malattia mentale è arbitrario e, cosa interessante, la stessa medicina psichiatrica lo sa, poiché stabilisce come criterio diagnostico differenziale il non verificarsi di altri disturbi mentali. L’esclusione della “condizione delirante” è uno degli elementi che costituisce la produzione discorsiva del “Transessualismo Psicopatologico” sin dalle origini della costruzione della presunta malattia, da David Cauldwell a Harry Benjamin e Robert Stoller. Tali norme esclusive mirano al riconoscimento di un tipo perfetto e idealizzato di allineamento tra mente e corpo, nel quale in ultima analisi la genitalità condiziona e definisce il genere. La condizione fisica però non è necessariamente il principale motore della “sofferenza”, come descritto dalla medicina psichiatrica che richiede i cosiddetti “interventi di riparazione” da parte della tecnologia di genere biomedica.

In quanto soggettività trans siamo anche esseri rappresentativi e rivendichiamo una certa democratizzazione dell’accesso al simbolico, cioè che non vi siano restrizioni nell’accedere ai segni con cui identificarci, che gli organi genitali non siano una giustificazione per limitare le possibilità di rappresentazione su noi stessi e sull’umanità.

Ovviamente, l’offerta di procedure biomediche è importante, dal momento che molte persone trans desiderano modificare il loro corpo, ma la domanda è: quali criteri dovrebbero essere presi in considerazione quando si accede a queste procedure? L’autonomia non sembra essere il principale fattore decisionale, il che è sintomatico di una cultura patologizzante in cui chi ha il potere di decidere sulle procedure è il professionista della salute e non la persona che le richiede.

Da questa logica derivano numerose violenze, tra cui il giudizio sulle vite dei soggetti, che devono esporsi obbligatoriamente ad un controllo esterno volto a stabilire chi sono, di cosa hanno bisogno e cosa possono o non possono avere in termini di accesso alle tecnologie.

Inoltre, un servizio incentrato sulla “logica della malattia” non è un servizio in grado di fornire un’assistenza sanitaria piena. La logica della malattia obbliga le persone a dire quello che i medici vogliono sentirsi dire per avere accesso ai servizi. In questo senso non è un modo di procedere umanizzante perché incapace di prendere in considerazione le esperienze di vita reali delle persone, che sono anche soggettive e possono non essere conformi alle aspettative del modello diagnostico. È importante rendere più empatico l’approccio sanitario, considerando i molteplici fattori sociali che hanno un impatto sulla salute e di conseguenza sull’assistenza delle persone trans.

Possiamo senz’altro dire che un modello affermativo come quello del consenso informato, basato sull’autodeterminazione e la garanzia della libertà di scelta nei percorsi di affermazione di genere, potrebbe tranquillamente sostituire l’attuale percorso diagnostico che segue un modello negativo, escludente ed arbitrario, basato su una valutazione medico-psichiatrica storicamente desueta ma soprattutto stigmatizzante.

Quando e come sarà possibile adeguarsi agli standard internazionali previsti dalla nuova versione di ICD11? Cosa comporterà per le persone transgender?

L’ICD 11 entrerà in vigore nel gennaio 2022 e dopo l’adozione dell’ICD 11 da parte dell’OMS, gli stati membri delle Nazioni Unite saranno responsabili dell’attuazione a livello nazionale. Ogni paese stabilirà tempi e modalità per la messa in vigore della nuova versione.

Le categorie relative alle persone trans sono state rimosse dal capitolo sui disturbi mentali e comportamentali e sono state inserite in un capitolo creato ad hoc, il capitolo 17, sulla salute sessuale. All’interno di questo capitolo sono state introdotte nuove categorie: l’incongruenza di genere nell’adolescenza e nell’età adulta e l’incongruenza di genere nell’infanzia.

In questo modo, l’OMS ha stabilito che essere una persona trans o di genere non conforme non è un ‘disturbo mentale’, ossia le esperienze trans non sono dei ‘sintomi’, ma esperienze del genere allo stesso titolo di quelle cis. In altre parole, una vergognosa storia di patologizzazione istituzionalizzata, “conversione” e sterilizzazione delle persone trans sembra volgere al termine. Tuttavia, le lotte per la depatologizzazione non devono arrestarsi. Queste lotte saranno ancora più necessarie per garantire l’efficace attuazione dell’ICD a livello nazionale per eliminare le normative patologizzanti e per garantire il libero accesso ai servizi sanitari e al riconoscimento legale del proprio genere. In questo senso anche la categoria di “incongruenza di genere” deve essere rivista e sostituita quanto prima da una categoria meno connotata. Inoltre, la categoria di incongruenza di genere nel nuovo ICD ha ancora l’aspetto di una diagnosi, tanto che è dotata di criteri diagnostici. Questo si potrebbe prestare a supportare la persistenza dei protocolli basati sul gatekeeping, cosa per noi inaccettabile. Crediamo anche che l’incongruenza del genere nell’infanzia debba essere rimossa dall’ICD 11 attraverso un’ampia mobilitazione nazionale ed internazionale a favore della depatologizzazione della diversità di genere nell’infanzia e delle esperienze trans in generale.

La depatologizzazione delle persone trans dev’essere totale, garantire l’accesso universale alla salute ed accompagnarsi al ritiro della condizione trans da tutti i manuali diagnostici. Molte persone in tutto il mondo sono state e sono gravemente impattate dalla patologizzazione. Queste persone, come tutte le altre vittime di violazioni dei diritti umani, hanno il diritto alla verità, alla riabilitazione e alla riparazione.

Potete aiutarci a comprendere come funziona all’estero l’accesso garantito e gratuito ai servizi senza diagnosi e cosa è il modello del consenso informato?

Già prima che il protocollo basato sul gatekeeping venisse stabilizzato, formalizzato e diffuso in quasi tutto il mondo, in particolare attraverso la creazione dei primi SdC del WPATH nel 1979, alcuni medici, per apertura mentale o per interesse economico – favorivano l’accesso ai trattamenti di affermazione di genere per l’utenza trans senza bisogno di un percorso diagnostico. Quindi per prima cosa ci preme rendere visibile che quello che oggi viene definito “modello del consenso informato” e viene percepito come una “novità” era già presente e in uso prima dell’avvento del modello basato sul gatekeeping. Aggiungiamo inoltre che la storia del primato del modello di medicina trans basata sul gatekeeping è una storia tutta occidentale, come hanno scritto studiosi di trans studies come Aren Aizura. Quello che oggi in contesto euro-americano (e più americano che euro) chiamiamo il “modello del consenso informato” è quindi solo una declinazione possibile dell’idea che le persone debbano poter essere libere di autodeterminare il proprio corpo – anche all’occorrenza modificandolo – e di poter accedere agli strumenti e alle condizioni materiali per farlo.

La storia di questo “modello del consenso informato” inizia negli Stati Uniti negli anni ‘90. In quel periodo alcune cliniche di salute comunitaria che accompagnavano persone provenienti da gruppi marginalizzati diversi (come le persone senza tetto) hanno iniziato a sviluppare protocolli per garantire l’accesso alle terapie ormonali alle persone trans e di genere non conforme, integrando il modello del consenso informato secondo una logica di prevenzione e riduzione del danno. L’obiettivo era quello di togliere la barriera della diagnosi psichiatrica per facilitare l’accesso alla salute e prevenire fenomeni che avrebbero peggiorato lo stato di salute (come l’auto-somministrazione di ormoni acquistati sul mercato nero) e lo stigma sociale delle persone trans e di genere non conforme. Questi protocolli erano anche l’espressione di una prospettiva più ampia fondata sulla volontà di depatologizzare le esperienze trans.

Nel contesto della salute delle persone trans e di genere non conforme il “modello del consenso informato” fa quindi riferimento a protocolli creati per/tra comunità marginalizzate, basati su un modello di accesso alla salute di tipo relazionale e non più diagnostico, in cui le persone che lo desiderano possono scegliere di beneficiare di trattamenti ormonali e chirurgici senza l’obbligo di sottoporsi a un processo di valutazione esterna da parte di un* professionista della salute che dovrebbe decretare la loro eligibilità o meno. Nella pratica nella maggior parte dei contesti nazionali è soprattutto l’accesso ai trattamenti ormonali a essere garantito sulla base del consenso informato, ma questo non toglie che in alcuni paesi (per esempio l’Argentina come vedremo) questo valga anche per i trattamenti chirurgici. Nel modello del consenso informato, la persona trans e di genere non conforme (e non più l’apparato medico) è messa al centro del processo decisionale che riguarda la propria salute. Il ruolo del* professionista sanitario è quello di fornire le informazioni necessarie sui rischi, i benefici e gli effetti collaterali dei trattamenti a cui la persona desidera sottoporsi, in modo tale da mettere quest’ultima nelle condizioni di poter esercitare, appunto, un consenso “informato” che dovrà essere registrato dal* professionista. La persona trans e di genere non conforme è quindi considerata capace di autodeterminarsi e decidere del proprio destino sulla base degli scambi e delle informazioni ricevute. In alcuni casi è considerata come più “sapiente” dei propri bisogni rispetto a medici specialisti. In questo modello il processo diagnostico non è più prerequisito necessario per accedere a trattamenti ormonali e chirurgici e perde valore, e la terapia psicologica non è più obbligatoria ma opzionale, a discrezione della persona, e prende pienamente la sua funzione di accompagnamento libero del percorso dell’utente. Non interferisce con il trattamento ormonale ma eventualmente lo accompagna. Il modello del consenso informato vuole eliminare le barriere perpetrate dal gatekeeping medico, facilitare l’accesso alla salute alle persone trans e di genere non conforme e migliorare la loro esperienza all’interno dei servizi di cura. Il tutto in una prospettiva non patologizzante che le ritiene capaci di autodeterminarsi.

Il WPATH considera il modello del consenso informato un modello emergente e compatibile con gli SdC. Tuttavia, questi ultimi continuano a “mettere in maggior risalto l’importante ruolo che il professionista della salute mentale può giocare per alleviare la disforia di genere e per favorire i cambiamenti nel ruolo di genere e nell’adattamento psicosociale” (SdC, p.35).

Ad oggi in alcuni paesi il modello del consenso informato è adottato in modo discrezionale da alcune cliniche e professionisti della salute. A Montreal (Quebec, Canada), per esempio, solo alcuni medici di base ed alcune cliniche lo utilizzano per prescrivere trattamenti ormonali. Per quanto riguarda l’accesso alle chirurgie il modello diagnostico rimane quello dominante. Ciò significa che i professionisti sanitari continuano a produrre lettere sulla idoneità del paziente ad accedere a chirurgie documentando la “disforia di genere”. La struttura di gatekeeping rimane quindi ampiamente diffusa e intatta.
In diversi paesi le lotte delle persone trans sono riuscite a far in modo che il modello del consenso informato venisse iscritto nella legge. Ad esempio, in Argentina dal 2012 una legge difende il “diritto all’identità di genere”, che include anche la possibilità di accedere a tutti i mezzi che consentano di affermarla, inclusi i trattamenti ormonali e chirurgici. Sulla base di questo diritto i trattamenti sono rimborsati e accessibili “senza ostacoli di natura amministrativa e giuridica”: essendo il gatekeeping diagnostico considerato un ostacolo, i trattamenti possono essere ottenuti senza passare per un processo di valutazione diagnostica. Ovviamente, come in ogni paese, la legge è implementata in modo diseguale in diverse parti del territorio nazionale, ma non si può negare che rappresenti un enorme passo avanti che negli ultimi anni ha ispirato altre leggi “gemelle” come ad esempio quella dell’Uruguay.

Come dicevamo, in Argentina l’implementazione del modello di accesso ai trattamenti di affermazione di genere si è fatta per via legislativa. Ma ci sono paesi in cui questo è avvenuto per passi successivi senza passare per la via legislativa, ad esempio in Francia. Qui la situazione è ad oggi a macchia di leopardo e vede una certa divisione tra ospedali e territorio. Mentre negli ospedali di alcune città dove si sono storicamente create delle equipe pluridisciplinari a partire dagli anni 80 il percorso di accesso è quello “classico” basato sul gatekeeping, sul territorio si sono create varie configurazioni grazie alle quali i trattamenti ormonali sono accessibili senza percorso diagnostico e rimborsati dalla Sécurité sociale e dalle complementari (in Francia vige un sistema basato sulle assicurazioni sociali). In particolare, questo è messo in atto da alcuni medici liberali (nel senso che lavorano sul territorio e che le loro prestazioni sono rimborsate dalla sécurité sociale) e da alcuni medici che lavorano o in consultori di salute sessuale (in particolare quelli afferenti alla rete dei Planning Familiaux) o in centri di salute come la Maison Dispersée de Santé di Lille. Quest’ultima ha costruito dal 2011 un percorso con attivist* che ad oggi ha un certo riconoscimento, ed ha pubblicato un articolo su European Psychiatry per raccontare il modo in cui lavorano. Nel loro centro di salute le persone accedono agli ormoni senza diagnosi. Per coloro che desiderano accedere alle chirurgie genitali, hanno creato una specie di partenariato col Belgio dato che in Francia le chirurgie genitali sono accessibili solo negli ospedali pubblici e quindi attraverso il percorso di gatekeeping.

Quelli appena citati sono alcuni esempi – che conosciamo più da vicino o abbiamo trovato interessanti e istruttivi – di implementazione del modello del consenso informato, avviati per via legale grazie a grandi campagne portate avanti da* attivist* o attraverso il lavoro territoriale e dal basso de* militant*. Ma ci sono molti altri esempi che non abbiamo qui lo spazio di citare.

Come mai questi farmaci non sono inseriti in fascia A?

In effetti la maggior parte dei prodotti a base di ormoni che sono utilizzati anche nell’ambito dei percorsi trans di affermazione di genere sono in fascia C, ovvero a carico dell’utente, e non in fascia A, cioè rimborsati dal SSN, sebbene sia importante ricordare che in teoria alcuni farmaci come il Tostrex siano in fascia A, ma per un’indicazione differente dal percorso di affermazione di genere trans. In Italia la decisione circa la rimborsabilità dei farmaci spetta all’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) e alle sue commissioni tecnico-consultive, che assegnano i farmaci a diverse “fasce”. Sono assegnati alla fascia A i farmaci ritenuti essenziali e quelli per malattie croniche, sono assegnati invece alla fascia H i farmaci essenziali rimborsati ma ad esclusivo uso ospedaliero o che possono essere distribuiti dalle strutture sanitarie. Evidentemente l’AIFA non ritiene o non ritiene più la maggioranza dei farmaci a base di “ormoni sessuali” dei farmaci essenziali. Ad oggi i farmaci usati nei percorsi di affermazione di genere trans hanno un’autorizzazione per l’immissione in commercio principalmente per due indicazioni: il trattamento ormonale sostitutivo per la menopausa nel caso dei farmaci a base di estrogeni, che oggi è usato da un numero relativamente ristretto di donne cis (7.6% secondo i dati Censis) e che ha ricevuto molte critiche per i suoi effetti collaterali ; nel caso del testosterone, per il trattamento ormonale sostitutivo negli uomini per lo più cis, in relazione a diverse situazioni legate a carenza di testosterone radunate sotto il termine ombrello di “ipogonadismo maschile”. In questo caso però, “l’ipogonadismo” deve essere diagnosticato clinicamente attraverso analisi di laboratorio (il T deve essere al di sotto di una certa soglia). È interessante notare che per entrambe le indicazioni, la carenza di T negli uomini cis e le trasformazioni ormonali legate alla menopausa, gli ormoni siano somministrati in un certo senso in una logica di affermazione di genere, per ristabilire i livelli ormonali considerati appropriati al genere dell’utente. Però se il genere affermato è quello assegnato alla nascita, l’indicazione è valida, non lo è più se il genere affermato è diverso da quello assegnato alla nascita. Siamo in presenza di un doppio standard. In effetti ad oggi non appare nella scheda tecnica dei farmaci l’indicazione per un uso dei percorsi T, e quindi non solo i farmaci sono usati off label per le persone T che non hanno rettificato i documenti, ma anche la loro eventuale rimborsabilità è molto complicata ed è garantita solo in alcune regioni o in alcuni servizi grazie alla buona volontà de/lle/gli operat/rici/ori. è importante sottolineare che anche se i farmaci a base di ormoni usati nei percorsi T passassero in fascia A o H, fino a quando la prescrizione alle persone T si farà off label sarà difficile per tutte le persone trans e non binarie godere del rimborso da parte del SSN, se non una volta cambiati i documenti e/o grazie alla buona volontà dei medici che le seguono.

Il problema della rimborsabilità dei farmaci, della fascia in cui sono classificati, va quindi legato a quello dell’inserimento in scheda tecnica dell’indicazione per i percorsi T. Detto questo, crediamo che il fatto che gli ormoni siano prescritti per una molteplicità di cause a tante persone e soggettività differenti apra la strada ad una possibile politica delle alleanze che è preziosa e andrebbe coltivata.

Dal punto di vista dell’autodeterminazione che differenza comporterebbe una fascia H invece della fascia A?

Come dicevamo i farmaci in fascia H sono rimborsati esclusivamente nel loro uso ospedaliero, mentre quelli in fascia A sono rimborsabili quando prescritti da tutti i medici abilitati a prescrivere un farmaco (inclusi medici di base etc.). Se i farmaci a base di ormoni usati nei percorsi T passassero in fascia H, cosa in sé positiva dal punto di vista della rimborsabilità, ci sarebbe il rischio che si crei un freno alla moltiplicazione dei medici prescrittori sul territorio e all’accesso ai trattamenti ormonali nel contesto dell’assistenza sanitaria primaria, che noi auspichiamo (persino la WPATH lo raccomanda, e non militano di certo per l’autodeterminazione corporea). Per noi solo facendo in modo che tutti i medici sul territorio siano competenti per seguire una persona in TOS potrebbe fare in modo che non si producano situazioni a “collo di bottiglia” per cui le persone T sono costrette a rivolgersi ad un numero ristretto di professionisti “esperti”. Da questo punto di vista la cosa migliore, crediamo, è che i farmaci usati dalle persone trans e non binarie passino in fascia A con un’indicazione specifica per i percorsi di affermazione di genere trans. Una questione a cui prestare attenzione è che questa indicazione non riproponga un approccio patologizzante che supporti il modello basato sul gatekeeping. Insomma, che non ci si ritrovi con dei farmaci rimborsabili solo sulla base di una diagnosi psi. I cambiamenti nell’ICD di cui abbiamo parlato potrebbero essere una leva da mobilitare in questo senso, sapendo che il modo in cui saranno implementati non è scontato, potrebbero anche non cambiare assolutamente nulla nella pratica: tutto dipenderà da quanto l’attivismo trans (e non solo!) saprà far valere le ragioni dell’autodeterminazione dei corpi e dei generi.

Esistono esempi virtuosi all’estero di paesi che tutelano il diritto alle persone transgender nell’accesso alla terapia ormonale? Addirittura riguardo al tema del microdosing?

Certamente ci sono paesi che a differenza dell’Italia garantiscono il rimborso dei trattamenti ormonali, qui una mappatura interessante fatta da Transgender Europe.

Ma non bisogna farsi troppe illusioni, a nostra conoscenza in nessun paese “l’indicazione trans” è inserita in scheda tecnica, questo perché le case farmaceutiche che producono gli ormoni non sono interessate a fare le procedure perché ciò avvenga e a riconoscere i bisogni delle comunità trans…nonostante il “transwashing” che alcune di queste portano avanti: pensiamo alla casa farmaceutica Bayer che ha recentemente guadagnato il premio “equality in the workplace” della Human Right Campaign perché negli Stati Uniti propone ai suoi dipendenti trans una copertura assicurativa inclusiva dei trattamenti di affermazione di genere che la stessa casa farmaceutica rifiuta di rendere pienamente disponibili a tutte le persone trans. Anche qui, crediamo sarebbe importante che i movimenti trans costruissero coalizioni con tutti gli altri soggetti che lottano per l’accesso ai farmaci, contro il sistema delle patenti e il monopolio delle grandi case farmaceutiche, perché i farmaci e tutte le altre tecnologie necessarie alla salute e al benessere siano fuori dalle logiche del profitto e del capitale.

Concludiamo sul tema del microdosing: non sappiamo se ci sono “paesi virtuosi” dal punto di vista della libertà delle persone trans di scegliere i regimi ormonali che preferiscono, crediamo piuttosto che si possa parlare di professionist* sanitar* più o meno virtuos* o alleat* ma vogliamo ricordare che gli SdC della WPATH (quindi fino a prova contraria le linee guida che a livello internazionale sono considerate “le pratiche migliori”), insistono sul fatto che i trattamenti debbano essere individuali, diversi da una persona all’altra (p.5). è il benessere della persona che conta quindi, in principio, non ci dovrebbe essere nessun ostacolo al microdosing. Questo dovrebbero averlo ben presente tutt* coloro che prescrivono ormoni. Ma se non se lo ricordano glielo si può far presente Standard di cura alla mano.

Pensate possibile anche in Italia un’alleanza tra la comunità trans, non binary, intersex, per pretendere una nuova legge e nuovi protocolli medici che possano riconoscere i diritti di tale spettro di molteplicità di soggettività esistenti senza compromessi sulle nostre vite, libere da sistemi di potere e da un vero sistema di business creato sui servizi che attraversiamo?

Crediamo che il genere sia uno dei punti di partenza da cui generare una trasformazione sociale ma che questo non vada pensato in modo isolato rispetto ad altre dimensioni che caratterizzano il sé e i percorsi di vita. In questo senso, crediamo sia importante adottare un approccio olistico alla salute e alla salute trans in una prospettiva di giustizia sociale che si interseca con altre lotte, come già menzionato in precedenza.

Con approccio olistico intendiamo che la comprensione della salute trans non deve ridursi alla questione della legge per la rettifica anagrafica e ai protocolli di transizione, la salute è legata anche a fattori socioeconomici che possono ostacolare il benessere delle persone trans. Anche le disuguaglianze sociali prodotte dalle oppressioni di classe, razzializzazione, status (es., impossibilità di accesso alla cittadinanza), localizzazione geografica (nord/sud, urbano/non urbano), isolamento sociale, disabilità, salute emotiva…impattano la condizione di salute delle persone trans, non binarie, non cisgenere. Questo ci porta a concepire le lotte trans e per la salute trans come intrecciate e impossibili da disgiungere da tante altre lotte, come, tra le altre, quelle contro le ordinanze sul decoro e la criminalizzazione del sex work e delle persone immigrate, le lotte per il diritto alla casa, al lavoro (degno, stabile e adeguatamente retribuito) e al reddito di autodeterminazione incondizionato e individuale.

Francia: una vittoria contro la patologizzazione, ma molti dubbi persistono

Una vittoria per il movimento trans in Francia: come rivendicato da anni, la SoFECT è stata abolita. La SoFECT era l’organizzazione dei sanitari e psichiatri che fanno parte delle équipe pluridisciplinari autoproclamate esperte che in alcuni ospedali pubblici francesi “gestiscono” i percorsi di transizione medicalizzati e detengono il monopolio delle chirurgie genitali. Sin dalla fine degli anni ’90 i movimenti trans si sono battuti contro i maltrattamenti, la psichiatrizzazione forzata, gli esami inutili e intrusivi, l’infantilizzazione e la patologizzazione trans che queste équipe impongono a* propr* utent*. Come spiega in una lettera aperta la Féderation Trans e Intersexes “i membri della SoFECT hanno per anni imposto dei protocolli inumani alle persone trans, selezionate sulla base di criteri sessisti, omofobi, grassofobici, puttanofobici, sierofobici, classisti e agisti”.
Ma l’abolizione della SoFECT non significa automaticamente la fine dei maltrattamenti, come spiega la Féderation Trans e Intersexes in questa lettera aperta. In effetti la nuova organizzazione di professionisti che è stata creata al posto della SoFECT, la French Association for Transgender Health (FPATH) ha accolto trai suoi membri i professionisti della SoFECT. Inoltre, alla faccia della volontà proclamata di depatologizzare e depsichiatrizzare l’approccio alla salute trans, la FPATH dice di voler seguire gli standard WPATH “che prevede ancora il ricorso ad una diagnosi di disforia di genere per accedere alla terapia ormonale”. La FPATH conta poi nel suo direttivo molti psichiatri (3 membri su 7). Infine la volontà proclamata dalla FPATH di aprire le porte alle associazioni trans nell’ottica di una vera democrazia sanitaria non ha dato per ora spazio a una concreta traduzione, dato lo scarso numero di rappresentanti di associazioni previsti nel consiglio di amministrazione (qualcuno starà pensando all’ONIG che ha sempre rifiutato di includere più di 2 membri trans? ;)). Spiega la lettera della FTI “Che dire del fatto che il consiglio di amministrazione non riserverà alle associazioni che 3 posti su 34? Le associazioni trans non sono state associate alla costruzione della FPATH, nonostante accompagnino ogni giorno le persone trans – prime “concernées” e attrici della propria salute – e facciano intendere la loro voce”.
Nonostante questi segnali poco promettenti, le associazioni trans – che d’altronde si sono già organizzate da tempo per creare dal basso servizi accessibili e non patologizzanti- hanno deciso di lasciare la porta aperta al dialogo… ma perché questo sia possibile pretendono che una serie di condizioni siano riunite:
1) che la metà dei posti del consiglio di amministrazione e del direttivo della FPATH siano riservati alle associazioni rappresentative delle persone trans
2) che l’obiettivo effettivo della collaborazione sia la fine effettiva e immediata di ogni forma di psichiatrizzazione diretta o indiretta dei percorsi di transizione e la depatologizzazione integrale con il mantenimento della attuale presa in carico al 100% del percorso di transizione da parta dell’Assurance Maladie

3) che tutti i sanitari che si associano a questa collaborazione firmino una carta di buona condotta che implichi il rispetto dell’autodeterminazione e dell’autoidentificazione delle persone trans (nomi, pronomi..) il riconoscimento della diversità dei percorsi, la condivisione della decisione medica, il rispetto del segreto medico e la diffusione di conoscenze per permettere la presa in carico delle persone trans in percorsi fuori-équipe.

4) che la FPATH riconosca pubblicamente che le équipe SoFECT hanno avuto delle pratiche inaccettabili e che allontani i professionisti che continuano a perpetuare tali pratiche

5) che tutti i professionisti maltrattanti siano immediatamente denunciati e allontanati

6) che la guida di buone pratiche sia redatta con le associazioni  e diffusa trai professionisti sanitari

7) che ogni decisione sulle persone trans sia presa con le persone trans. Le riunioni di concertazione pluridisciplinari che riuniscono endocrinologi, psichiatri e chirurghi e che valutano le domande di presa in carico devono essere sistematicamente aperte alle persone trans e alle loro rappresentanti

8) che tutti i progetti di creazione di servizi e di ricerca medica sulle persone trans siano discussi a monte con le associazioni trans e eventualmente costruiti in collaborazione con queste ultime e che queste siano doverosamente incluse nei comitati di pilotaggio e pagate per il loro lavoro di expertise 

9) che siano condannati tutti i protocolli della SoFECT-FPATH che si rivendicano come “ufficiali” e impongono un percorso unico e lineare, patologizzante e psichiatrizzante, unicamente nelle mani dei sanitari

10) che nessuna équipe di professionisti sanitari, costituitasi nel quadro ospedaliero o altrove, possa rivendicarsi come “ufficiale”

11) che tutti i tempi di attesa e le tappe nei percorsi di transizione siano eliminati

12) che i diritti in vigore – libertà di scelta del medico, rifiuto di prestare delle cure etc. – siano applicati nei fatti  

La FTI invita tutte le associazioni che hanno a cuore i diritti trans a sostenere queste rivendicazione e a non unirsi ad una organizzazione che allo stato attuale sembra essere stata creata nel tentativo di dividere il movimento trans. In effetti la FTI teme che il cambiamento di nome sia solo un tentativo di dare una vernice di novità alle solite vecchie pratiche. Allo stesso tempo la FTI invita alla creazione di una vera rete consacrata alla salute trans in Francia che sia rispettosa delle persone trans e aperta a tutte le persone che intervengono nella presa in carico dei loro bisogni.

Esprimiamo pieno sostegno alle associazioni trans firmatarie della lettera e alle Féderation Trans e Interexes. Basta patologizzazione!

 

Il punto di vista del DEpath sulle recenti delibere dell’Agenzia italiana del farmaco

In un paese come l’Italia in cui la patologizzazione delle esperienze e soggettività trans non ha aperto la strada alla piena gratuità dei trattamenti e procedure di affermazione di genere (https://www.queermagazine.it/…/la-questione…/…) – con buona pace di chi ci ha creduto e sperato – i movimenti trans rivendicano da lungo tempo l’accesso a trattamenti ormonali di qualità e a carico del sistema sanitario nazionale (SSN). In effetti, la maggior parte dei farmaci utilizzati « off label » nei percorsi di affermazione di genere delle persone trans, con qualche eccezione come il Tostrex, sono entrati in fascia C da tempo o recentemente – ossia non rimborsati dal SSN – per le indicazioni per le quali sono generalmente prescritti (trattamento dei sintomi associati alla post-menopausa, trattamento dei sintomi associati alla carenza di testosterone/ipogonadismo). Questo non ha impedito che, fino ad oggi, alcune persone trans ottenessero l’accesso a trattamenti ormonali a carico del SSN grazie al sostegno di alcuni sanitari – che hanno saputo fare buon uso delle normative vigenti sulla prescrizione dei farmaci off label – o grazie al fatto di risiedere in regioni che hanno reso i trattamenti ormonali gratuiti per delibera, almeno per coloro che seguono un certo iter.
Nelle ultime due settimane si è parlato molto di due recenti delibere (https://www.gazzettaufficiale.it/…/carica…/originario…) che hanno inserito la maggior parte dei farmaci utilizzati nei percorsi di affermazione di genere delle persone trans nella lista dei medicinali erogabili a carico del SSN, per un’indicazione differente da quella autorizzata in base alla legge 648/96 (https://www.aifa.gov.it/fr/legge-648-96). La notizia ha inizialmente destato grande entusiasmo, poiché interpretata come un’opportunità per le persone trans di accedere a terapie ormonali gratuite e garantite sull’intero territorio nazionale. Tuttavia, come già altr* hanno fatto notare (https://sonolunicamia.com/…/ormoni-gratuiti-non…/), ci sono diversi aspetti potenzialmente problematici legati a queste nuove disposizioni, i cui effetti saranno chiari solo nei giorni a venire, attraverso la sperimentazione – come sempre accade – da parte delle persone direttamente coinvolte. Le delibere stabiliscono che l’erogazione a carico del SSN (attraverso “il servizio farmaceutico delle strutture prescrittrici, ove possibile, oppure del servizio farmaceutico dell’azienda sanitaria locale di residenza del paziente”) sia possibile “previa diagnosi di disforia di genere/incongruenza di genere, formulata da una equipe multidisciplinare e specialistica dedicata”. Si tratta quindi di una clausola che istituzionalizza e rinforza il modello di gatekeeping che da sempre contestiamo: un modello che non solo patologizza e infantilizza le esperienze e le identità trans (vedi il riferimento all’obbligo di diagnosi) – considerate incapaci di decidere sul proprio corpo – ma che in più rappresenta una vera e propria barriera nell’accesso ai servizi per tutt*, e soprattutto per le persone più marginalizzate e che subiscono forme intersezionali di oppressione (persone trans razzializzate, senza documenti, sex workers…).
Temiamo che l’istituzionalizzazione di questo modello promosso dalle delibere summenzionate sia un passo indietro rispetto all’affermazione del modello del consenso informato di accesso ai trattamenti di affermazione di genere, promosso e ideato dalle stesse persone trans per superare il modello medico cisnormativo del gatekeeping.
Siamo convint* che le persone trans debbano poter accedere a trattamenti ormonali a carico del servizio sanitario nazionale presso tutti i servizi di salute primaria e attraverso gli operatori sanitari – in particolare i medici di base – presenti sul territorio, senza l’obbligo di diagnosi né di passare da un “centro specialistico”: il modo di erogazione dei farmaci a carico del SSN deve essere compatibile con questo obiettivo, pena la riproduzione di un modello patologizzante e inegualitario di medicina trans. Crediamo che si tratti dell’unica soluzione per facilitare un reale accesso al benessere e alla salute senza costi materiali e psicologici ingiusti e inutili per le persone trans che desiderano/hanno bisogno di intraprendere un percorso medico di affermazione di genere. Inoltre, ci preoccupano i possibili ulteriori effetti collaterali che queste delibere potrebbero creare. Cosa ne sarà, ad esempio, di tutte le persone che non sono seguite da un “centro specialistico”? Ad oggi, infatti, sono molte le persone trans in Italia che non rientrano all’interno del protocollo previsto dai centri specializzati, spesso a causa della paura di essere schiacciat* all’interno di una narrazione diversa dalla propria. I modelli medici dominanti impediscono, ad esempio, un pieno riconoscimento dell’esperienza delle persone trans non binarie, imponendo dei criteri rigidi legati alla diagnosi di disforia di genere (e al conseguente desiderio di appartenere al genere considerato opposto), al fine di poter accedere all’iter medico-legale di affermazione di genere. Teniamo a ricordare che per i medici che operano al di fuori di un’equipe pluridisciplinare dovrebbe essere possibile secondo le norme vigenti continuare a prescrivere ormoni off label (anche se a carico dell* utente) e che i percorsi di accesso ai famaci off label sono molteplici (https://www.aifa.gov.it/fr/accesso-precoce-uso-off-label). Infine, ci interroghiamo su quali saranno le conseguenze per le persone che sono seguite da medici che non fanno parte di “equipe multidisciplinari” e che hanno già accesso a farmaci erogati dal SSN.
Ci auguriamo che le voci critiche emerse dalle reti trans a seguito dell’approvazione di queste delibere siano ascoltate ed accolte, per strutturare anche in Italia un modello di accesso ai percorsi ormonali più aperto e non patologizzante che abbia un impatto positivo, non discriminante e non gerarchico sulle vite delle persone trans e non binarie. Auspichiamo un cambiamento di paradigma nell’accesso alla salute trans, basato sul modello del consenso informato.

Intervento al convegno “50 anni di Stonewall. 20 anni di TDOR”, Roma 2019

Depath nasce da un gruppo di attivistU trans/non binariU/genderqueer e altri asterischi che vengono da percorsi politici vari ed eterogenei ma che si riconoscono nel trans femminismo come movimento femminista intersezionale che mette al centro la critica alla cis-normatività e al binarismo di genere, ma anche al capitalismo, al razzismo, all’abilismo, etc. 

Lo scorso aprile in corrispondenza con la conferenza biennale dell’EPATH, la European Association for Transgender Health che si teneva a Roma, abbiamo organizzato una due giorni per parlare di salute trans di, per e tra persone trans/non/binariU ecc. Mentre un’associazione internazionale composta maggioritariamente da professionisti cisgenere si riuniva per discutere di salute trans in uno spazio economicamente, socialmente, simbolicamente inaccessibile alla maggioranza delle persone trans e non binarie in Italia (insomma per parlare di noi senza di noi).

Abbiamo voluto costruire uno spazio dove potersi riunire per tornare a politicizzare la salute trans e non binaria e pensarla al di fuori del paradigma patologizzante dentro il quale è generalmente confinata. 

Depath è un gioco di parole con Epath ma è anche un modo di mettere al centro la questione della depatologizzazione delle esperienze trans e non binarie, che per noi è una condizione essenziale del benessere e della salute trans. La patologizzazione trans, ossia la costruzione delle identità e delle esperienze trans come anormali, negative per gli individui e per la società, è un elemento che permea la società nella quale viviamo, incluse le istituzioni mediche, educative, sociali, a dispetto dei proclami della comunità medica internazionale (ultimo dei quali il cambiamento dell’ICD dell’OMS). 

Una delle espressioni più dirette e tangibili della cisnormatività che permea la società, la patologizzazione, non è solo un problema di “mancato riconoscimento” delle nostre identità e delle nostre esperienze del corpo e del genere, che sono viste come “sintomi” di un problema/malattia… anche se il “mancato riconoscimento” che la patologizzazione genera ha ricadute molto materiali perché nutre la transfobia e la transmisoginia che producono violenza e esclusione sociale.

La patologizzazione ha anche degli effetti materiali molto più diretti sulla vita delle persone trans e non binarie. La patologizzazione condiziona l’accesso ai diritti sociali – pensiamo al fatto che una diagnosi di disforia è ancora necessaria in Italia per cambiare i documenti (per coloro che desiderano farlo) in un mondo in cui M o F è ancora una informazione centrale sui documenti di identità e in cui avere dei documenti conformi (e in generale avere dei documenti riconosciuti nel paese, privilegio che non tutte le persone trans hanno) condiziona l’accesso a servizi, lavoro, reddito, mobilità… la patologizzazione condiziona la possibilità di accedere ai percorsi medicalizzati di affermazione di genere richiesto da alcune soggettività trans: ancora oggi, infatti, c’è bisogno che un professionista psi (poco importa psicoterapeuta o psichiatra) formuli una diagnosi di disforia di genere (a volte dopo mesi di psicoterapia) al fine di poter accedere agli ormoni, per non parlare della chirurgia. 

QualcunU dice che questo serva a tutelare le persone trans, a garantirne la salute e a fare in modo che le persone facciano scelte ragionate rispetto al proprio corpo e alla propria vita (aka: non si pentano !)… noi pensiamo che la patologizzazione faccia male alla salute mentale e fisica delle persone trans:

1) perché la patologizzazione è una forma di stigma e lo stigma, lo sappiamo, fa male alla salute

2) perché per le persone che sentono il bisogno di un accompagnamento psi durante una cosiddetta “transizione medicalizzata” il ruolo di gatekeeper che l’attuale sistema assegna ai professionisti della salute mentale impedisce l’instaurazione di un vero rapporto terapeutico (come si può avere una relazione terapeutica con qualcuno che ha il potere di decidere per noi?). Di fatto il gatekeeping mette a rischio la salute mentale delle persone piuttosto che favorirla.  Inoltre la patologizzazione delle esperienze trans ostacola l’accesso a un supporto in salute mentale affermativo nei confronti delle identità di genere delle persone e libero dalla tentazione di leggere ogni problema di una persona trans come frutto di quella che l’apparato medico in Italia intende ancora come una “condizione”.

Infine crediamo che il gatekeeping che caratterizza l’attuale modello medico di accompagnamento ai percorsi di affermazione di genere non possa in nessun modo aiutare le persone a fare le proprie scelte rispetto al ricorso a trattamenti di affermazione di genere in modo oculato perché è costruito in modo tale da spingere le persone a dimostrare di odiare il proprio corpo e volerlo cambiare il più possibile per poter rientrare nei criteri diagnostici dai quali dipende l’accesso a tutti i trattamenti di affermazione di genere e la possibilità di vedere la propria identità riconosciuta amministrativamente (cambio dei documenti, spesso carriere alias etc).

Di depatologizzazione si è molto discusso negli ultimi decenni, e moltU hanno legittimamente espresso il sentimento che la patologizzazione sebbene problematica, sia il prezzo da pagare per avere accesso a trattamenti di affermazione di genere rimborsati dal sistema sanitario nazionale. Noi crediamo che questa paura non abbia più luogo di essere. In primo luogo la patologizzazione non ha di fatto garantito l’accesso gratuito ai trattamenti. 

Guardiamoci intorno: per prendere solo il caso dell’Italia, nonostante decenni di patologizzazione i trattamenti ormonali non sono ancora rimborsati se non in un numero ristretto di regioni o strutture e grazie a una serie di manovre che gli endocrinologi di buona volontà possono scegliere (individualmente e senza nessun obbligo) di fare per accomodare lU propriU utentU… anche in questo caso però tutta l’architettura costruita finora è totalmente precaria, basti pensare al recente caso di esclusione dei farmaci a base di estrogeni dalla fascia A: una scelta che è stata compiuta senza nemmeno prendere in considerazione l’esistenza delle persone trans e l’uso che ne facciamo! 

Per quanto riguarda le chirurgie, possiamo dire che sulla carta sono gratuite (come qualsiasi operazione svolta nel contesto degli ospedali pubblici), ma possiamo chiederci se nei fatti lo siano veramente… di fatto per potervi accedere, a causa della patologizzazione trans che informa la legge 164, è necessario ottenere la sentenza di un giudice e questo vuol dire soldi per avvocati e perizie (e il gratuito patrocinio non esenta dalle spese per le perizie). Inoltre anche una volta avuta la perizia, le liste di attesa sono spesso mastodontiche e spingono le persone che possono permetterselo, che hanno già atteso molto tempo , a rivolgersi al privato, favorendo di fatto un’ingiustizia sociale inaccettabile e una medicina di classe a due velocità… peraltro ci potremmo chiedere perché interventi che non hanno nulla di particolarmente specialistico come l’isterectomia o anche la torsoplastica o mastectomia debbano essere praticate solo da un manipolo di chirurghi “specialisti “… non sarà anche questo un frutto della patologizzazione che produce uno stato di eccezione per le persone trans? 

La patologizzazione e il sistema di gatekeeping che ne dipende ha prodotto un sistema nel quale molte persone che non corrispondono ai criteri diagnostici o che non ci si riconoscono sono di fatto escluse dall’accesso all’ormonoterapia nei circuiti del SSN… Quindi no, la patologizzazione non difende veramente il diritto delle persone trans e non binarie ad accedere a trattamenti rimborsati dal SSN, ma anzi produce di fatto spesso esclusione sulla base di criteri di classe, razzializzazione, espressione di genere. Rinunciarvi renderebbe davvero le cose peggiori? Dando un’occhiata a quello che succede in molte parti del mondo, diremmo di no. 

Ormai in molti paesi, per vie differenti (o attraverso l’approvazione di nuove leggi come in Argentina, Uruguay e nello Stato spagnolo, oppure grazie alla mobilitazione di attivistU trans a livello locale come in Francia) è già possibile l’accesso ai trattamenti di affermazione di genere sulla base di quello che possiamo definire il modello del consenso informato, ossia un modello di accesso ai trattamenti di affermazione di genere e a tutti i servizi sanitari di cui potremmo avere eventualmente bisogno, non basato su un processo di valutazione diagnostica.. E questo non ha affatto comportato la perdita della copertura sanitaria garantita dai rispettivi SSN. 

E’ anche per iniziare a confrontarci su questo che abbiamo organizzato il Depath: volevamo smettere di dibattere in termini astratti sulla depatologizzazione, sui suoi ipotetici pro e contro, e iniziare invece a ragionare su come metterla in pratica qui e ora.

Iniziare a pensare strategie, prendere ispirazione dalle esperienze degli altri paesi (erano presenti moltU attivistU internazionalU) e capire concretamente come si fa a renderla reale.

Pensiamo che il momento sia venuto di smettere di chiederci SE la depatologizzazione è possibile ma COME attuarla nella pratica. 

Per noi depatologizzazione significa non solo uscita da un paradigma patologizzante delle esperienze trans, ma anche giustizia sociale e diritto alla salute, garanzia della autodeterminazione e dell’autonomia corporea per tuttU, incluse le persone trans, che significa anche garanzia dei mezzi materiali per raggiungere questa autonomia e autodeterminazione, e quindi accesso ai trattamenti di affermazione di genere/modificazione corporea rimborsati dal SSN per chi li desidera e naturalmente accesso a servizi sanitari gratuitU, trans affermativi, rispettosi dell’autodeterminazione per tuttU. 

Proprio per questo la lotta per la depatologizzazione e per l’affermazione di quello che chiamiamo il modello del consenso informato è una lotta transfemminista. E’ una lotta per l’autodeterminazione dei corpi e dei generi e per l’eterogeneità degli stessi nonché per l’accesso ai servizi che la garantiscono (inclusi i servizi legati alla salute sessuale e riproduttiva). E’ una lotta contro le politiche neoliberiste perché basata sul rifiuto della privatizzazione del welfare – che per noi è da rinnovare completamente mettendo al centro l’autodeterminazione dei soggetti – che favorisce i profitti dei privati, è una lotta anti-capitalista perché vogliamo riprenderci il controllo sui mezzi di ri/produzione dei nostri corpi e dei nostri generi.

Diritto alla salute in Italia

La Commissione Europea ha pubblicato l’ultimo rapporto sulla situazione della salute e dei sistemi sanitari nei diversi paesi europei Health at a glance 2020. Il quadro generale tracciato dal rapporto conferma quello che ormai sappiamo da tempo: in Italia il diritto alla salute retrocede sotto i colpi delle politiche di austerità che si sono abbattute nel corso degli anni sul SSN, che stanno rendendo l’accesso alle cure sempre più una questione di classe. La privatizzazione del costo della salute avanza a tutta velocità: in Italia solo 74% delle spese legate alla salute sono finanziate con fondi pubblici e quindi socializzate, mentre ben 24% di queste spese ricadono sulle spalle deg* utent* e 2% sono pagate da assicurazioni private. Il finanziamento pubblico della salute è più importante nell’ambito ospedaliero, dove 96% delle spese sono prese in carico dal SSN, mentre sul territorio il tasso di socializzazione delle spese sanitarie si riduce al 59% (la media europea è 74%). Solo 63% della spesa per i farmaci è a carico del SSN – come sanno bene le persone trans in TOS – mentre in altri paesi europei come la Germania è socializzato l’82% della spesa farmaceutica. Questa privatizzazione crescente delle spese legate alla salute fa sì che il peso di queste ultime nei consumi delle persone e delle s/famiglie sia oggi più forte in Italia (3.4%) che in altri paesi come ad esempio la Francia 2% della Francia. Inoltre le spese dette “catastrofiche” per la salute riguardano più s/famiglie in Italia che in media gli altri paesi europei (8% in italia contro 6.6 nell’UE a 20) e toccano in modo nettamente più sensibile l* più pover*, popolazione in cui le persone trans sono suvrarappresentate (33% secondo uno studio della Fundamental Rights Agency dell’UE). Oltre ai problemi di finanziamento le politiche di austerità e di precarizzazione del lavoro anche nel campo della sanità hanno prodotto la carenza di professionist* della salute – in particolare infermier* (5.7 per 1000 abitanti contro 8.2 in media in UE) – che oggi affligge il sistema sanitario italiano. Questo significa modalità di lavoro usuranti per l* professionist* e difficoltà di accesso ai servizi e tempi di attesa inaccettabili per l* utenti. Naturalmente anche il numero di posti letto in ospedale è particolarmente basso: 3.1 per 1000 abitanti (con una netta diminuzione tra 2000 e 2018) contro una media di 5 nell’Europa a 27 (ma in Germania i letti sono 8 per 1000 abitanti). Anche su questo fronte le persona trans sanno fin troppo bene cosa significano carenza di professionisti, servizi insufficienti, diseguaglianze territoriali e tempi di attesa impossibili: la salute trans e in particolare per quanto riguarda i trattamenti di affermazione di genere è da tempo toccata da questi problemi.
La lotta per la salute trans non può prescindere dalla lotta per il diritto alla salute per tutt*, per la socializzazione delle spese sanitarie, per un sistema sanitario pubblico e accessibile sotto ogni punto di vista, che sia un supporto al benessere e all’autodeterminazione delle persone. Perché non c’è giustizia di genere senza giustizia sociale e senza salute per tutt*.